A Love Supreme – Giovanni Sicuranza
Loredana
mi lascia.
Lo
fa seduta alla fermata dell’autobus, con i jeans che coprono i graffiti pornografici
e i numeri di telefono della panchina, con le gambe incrociate, le punte dei
piedi che appena sfiorano mozziconi di sigaretta e ferite d’asfalto, che
ciondolano come oscilloscopi lenti, avanti, a destra, a sinistra, indietro e a
sinistra, così, e intanto dice che mi lascia, il tono della voce che supera
appena i decibel del mio cuore impazzito.
Come
dici, scusa?, biascico per allungare la speranza di una via di uscita.
Siamo
avvolti dalla pensilina rossa della fermata, una semisfera che spunta alle sue
spalle e si interrompe appena qualche centimetro sopra le nostre teste
distanti.
E’
il palmo di una mano pronta a chiudersi. Una mano senza dita.
Dai,
dice lei, e si porta il pollice in bocca.
La pensilina
è rossa, vermiglia, lucente, e una mano a cui amputi le dita avrebbe proprio il
suo colore.
Smettila
di mangiarti le unghie.
Non ti
riguarda più.
Silenzio.
Lei mi
lascia dopo tre mesi di passione e promesse, dopo che ho detto addio al lavoro
per dimostrarle quanto la amo.
Domani
avrei dovuto uccidere mia moglie e i miei due figli, ma lei mi lascia oggi e
forse non ha più senso andare avanti.
Già,
andare avanti.
I
nostri progetti, ehi; allungo l’ultima parola, la lascio sfumare, calda, piena
di roco dolore, come faccio con il viso, lo allungo verso di lei, lascio che sia
carne e respiro confusi nei suoi occhi, pronto a catturare un bacio.
Lei
è veloce.
Tu
sei matto. Ti ho detto che è finita.
Salda
i piedi al suolo, il suo corpo minuto fende l’aria, si erge oltre la gravità,
mi arriva appena alle spalle, berretto di lana incluso.
Mi fissa.
Fai un
altro gesto e urlo. Ringhia. Poi ti separo i maroni con un calcio.
Abbozzo
un sorriso. Segnale di distensione.
Ah,
aspetta, arretro anche di un passo, solo uno, però, un altro ancora e mi troverei
sulla strada, bersaglio facile per il traffico.
Ho fatto
molto per te, tesoro, sono senza lavoro.
Lei fa
sì con la testa, ma in un modo che continua a fare male, troppo deciso, troppo
veloce.
Hai lasciato
l’azienda di paparino, capirai, con tutti i soldi che prendi lo stesso.
Ma
potevo fare carriera.
Vedi
come ci pensi?
pausa,
un clacson che ride, tre colpi in rapida sequenza, un altro che risponde, vibra,
fragile; una pernacchia.
E perché
non dovrei?
Sei
un capitalista di merda.
Loredana
mi lascia e lo fa per questo.
Le ho
detto che a me interessa solo lei, però lei desidera un militante.
Allora
le ho detto che sono un rivoluzionario, che le regole sono il marciume della
borghesia, tanto che posso uccidere i simboli del matrimonio, di questa
invenzione catto-borghese, persino i miei simboli, e lei mi ha chiesto cosa
intendevo.
Ho fatto
il nome di mia moglie, ho deglutito, poi ho aggiunto quelli dei miei figli e
lei ha taciuto, allora le ho promesso che entro breve avrei massacrato ogni
virus bastardo della mia bella facciata sociale.
E che
poi sarei stato suo.
Non è
questo, sei patetico.
Guarda,
Loredana, adesso esageri.
E così
ho cambiato schema, sono passato all’attacco.
Le
ho detto che credere fermamente in un’ideologia politica è come essere fanatici
religiosi, perché comunque devi allinearti agli schematismi del partito e allinearsi
significa perdere di obiettività.
Quale
obiettività; mi ha chiesto lei; anzi, mi ha morso, perché alla fine della frase
mica c’era una domanda, no, mi aspettava la lama dello scherno; la tua
obiettività, intendi, il so-tutto-io.
Almeno
io penso con la mia testa, non con quella di principi imposti da un’ideologia. Dimmi
cosa significa libertà, dai, e poi dignità, dai; vi piacciono queste parole, le
ripetete sempre e nemmeno capite che sono mantra privi di contenuto. Proprio la
tua gente le ha svuotate a forza di ripeterle in slogan.
Loredana
ha incrociato le braccia, le ha frapposte tra i miei respiri e il suo seno.
Ho schiumato.
Non
sei migliore di me, vuoi fare la pasionaria, ma hai il nome di una fighettina!
L-o-r-e-d-a-n-a,
così ho sillabato, perché non avevo altro per scuoterla. Niente altro che il
suo nome denigrato alla sua passione.
Questo
è stato il baratro della mia impotenza.
Così
oggi Loredana mi lascia.
Attende
l’autobus numero 69, andrà in piazza Primo Maggio e da lì sarà un corpo unico
con il corteo dei manifestanti.
Forse
verrà un poliziotto e la caricherà, non so, e forse comunque un giorno aprirà
le gambe a qualcuno per farsi caricare.
Per te
sarei cambiato, penso.
Lei mi
guarda e non mi vede più. I suoi occhi hanno la marea profonda dell’oceano che avanza
e non comprende i dettagli travolti.
E tanto
so che come avrebbe risposto, che non per lei, ma per la società avrei dovuto
cambiare. E poi cambiare la società.
Loredana
mi passa oltre, sale sull’autobus e diventa per sempre silenzio.
Il mio
corpo è pesante, come una tromba in un jazz d’addio.
Mi affloscio
sulla pensilina. Forse ho ancora le gambe, forse persino le braccia, non
capisco, sento solo un peso, massi ovunque, anche dentro il petto.
Giunge
un autobus, rallenta, io nemmeno sollevo lo sguardo e quello se ne va.
Poi se
ne va anche la mia mente, raggiunge Loredana seduta sull’autobus, si siede al
suo fianco, la fissa.
Lei guarda
le figure della città deformate dalle macchie di unto del finestrino. Non piange,
non sospira.
Lei è
la sua gente e la sua gente non sono io.
Questo
è tutto, tutto il suo mondo, tutto quello che mi lascia.
Rimango
seduto, non sento freddo, il cielo muta colore, diventa notte, credo, ma il
tempo è una necessità di chi vive.
Comunque
riconosco ancora l’alba quando mi tolgo le cuffie.
Spengo
“A Love Supreme” di John Coltrane, forse l’ho assorbito cento, mille volte, ma
nulla mi rimane dentro, così lascio cadere sul marciapiede il lettore di Mp3 e
torno a casa.
Apro
la porta, sorrido alla famiglia.
Uccido
subito mia moglie.
Un sospiro.
Poi uccido
i miei figli, tutti.
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