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Carne di Agnello



Carne d’agnelloGiovanni Sicuranza
(dal romanzo “Carne di Agnello” di Giovanni Sicuranza)


La morte è solo una malattia della pelle, dice Joshua, voi lo sapete. 
E’ vero, noi, con la pelle a squame nere che cade nell’autunno delle strade, lo sappiamo bene. 
Lui invece è nei secoli l’elite della resurrezione. 
Bello, profumato, integro; insomma quasi integro, non fosse per la breccia sul costato, lì a destra, dove emergono blop blop schiumogeni, che si gonfiano, esplodono a raffica ad ogni sua parola, nemmeno fosse la schiusa seriale di uova di lumaca, la più intensa prima di un’estinzione. 
E queste piccole sorelle che salviamo oggi, le vedete, tutti voi le vedete, sono come già morte. 
Affonda le mani nel collo di una delle seicentosessantasei pecore, quella che si trova al mio fianco e che non smette di fissarmi con occhi confusi da quando l’abbiamo liberata dal mattatoio di Pasquale d’Agnello e portata qui, sulle colline, con le altre, e dove adesso ce ne stiamo radunati tutti, io, gli altri undici zombie e il nostro leader, il grande Joshua, il Cresto per gli amici, lui che ci ha risorti a vari gradi di putrefazione.  
Non so quali accordi ha preso con gli animalisti che ci hanno aiutato nel ratto ovino; Joshoua dice che portare le pecore alle nostre dimore è stata la cosa più semplice; agli animalisti interessa solo che siano state sottratte alla mattanza di Pasqua, perché questo è il gesto che fa slogan condiviso sui social di tutto il mondo; in genere, passate le feste, la gente dimentica e non si interroga sul destino di queste bestie fino all’anno successivo.
Le hanno offerte tutte a noi, queste povere bestie, ripete, e adesso la sua voce è un sassofono basso, languido, e le sue mani leggere passeggiano sui i fianchi della pecora in un percorso improvvisato, con le carezze del jazz, e la pecora non smette di fissarmi con lune nere e inspiegabili e io ho un fremito dove un tempo giaceva la mia virilità e mi chiedo, davvero mi chiedo, se gli animalisti e i popoli del web sarebbero contenti di sentire il Cresto che chiama bestie queste femmine salvate.   
Maestro, scusa. 
Joshua si ferma, le bolle dell’emicostato rimangono a centinaia sospese sugli abissi della ferita, tese; in alcune mi sembra di vedere serpenti di sangue, ma forse è solo il riflesso delle nuvole rosse sopra il nostro rifugio.
Cosa vuoi, Petro? Ti avevo detto di non rivolgermi la parola fino al prossimo canto del gallo. 
Petro abbassa gli occhi, incontra quelli della pecora seduta ai suoi piedi e a sua volta, lento, si accovaccia. 
È che qui non ci sono più galli, Joshoua.
No?
No, li hanno liberati tutti gli animalisti, insomma, mentre noi portavamo qui le pecore. Li ho visti, Joshoua, parola, erano loro, indossavano ancora i cappucci con le orecchie da lupo.
Solo io lo sento. 
Carogne, soffia, così tenue che nemmeno una bolla del costato fa blop. 
Sono seduto a un niente da lui, al suo fianco; Joshoua mi stima, io, Giuda di Kariot, l’unico del gruppo a volergli bene anche nel male, insomma, non tutti si impiccano per un amico, ma questa è un’altra storia e nemmeno so se varrà la pena narrarla nei libri che abbiamo deciso di scrivere sulla sua biografia adesso che esistono le piattaforme del self-publishing.  
Allora dimmi, Petro; 
tutte le bolle boccheggiano in coro e se ne vanno a riversare liquidi diafani sulla testa della piccola pecora di Joshua; lei non fa un beh; 
dimmi, hai di nuovo potere di parola, uomo. 
Ecco, Joshua, io comprendo me, che ho le dita delle mani e dei piedi mangiate dai vermi della terra, comprendo i nostri compagni, Marco ha l’addome gonfio e verde e da quando lo hai fatto risorgere lo chiamiamo Marcio, comprendo anche 
Non fa ridere, gorgoglia Marcio dietro di lui, vestito di buio. 
Non volevo fare ridere, scusatemi tutti, compagni, fratelli. 
Vieni al punto, Petro. 
Sì, Joshua, il punto è che non capisco cosa c’entrano questi agnelli con la morte e con la malattia della pelle.      
C’era un tempo, ricordo, in cui pescavo pesci nel lago del mio paese di Kariot. 
La sua superficie era melmosa, grigioverde, immobile, e, prima dei pesci, ci donava un odore rancido dalla lunga memoria, ce lo spalmava sulla pelle, quella di pecora che ci vestiva e quella nostra nuda e sudata. Dopo mezza giornata di pesca  noi eravamo l’odore. 
Eravamo la morte che nasconde la vita, il puzzo morboso sulla carne viva, come il lago celava i pesci.
Adesso siamo qui radunati, lungo i pendii delle colline, sotto un sole celato che splende la luna di grigio, sotto i nastri suoi rossi che trafiggono le nubi e cadono nella terra, e con Joshua che ci guarda uno ad uno, ventiquattro occhi spogliati dai suoi, forse meno, perché alcuni li abbiamo persi durante la sepoltura e la nostra resurrezione non è stata bella come quella del Cresto. 
Ci dice che questi agnelli sono bianchi proprio come la pelle della morte e che la loro consistenza è soffice al tatto come carne frollata.
Smette di guardarci e si china sulla giovane pecora, le mani che continuano a rassicurarla, lei che è sempre indifferente come femmina sdegnata.
Ogni religione ha bisogno di un sacrificio, dice il Cresto, e la sua voce è ancora il sax della notte, intenso, penetrante, ricordatelo tutti, è solo mostrando il sacrificio e il sangue che la religione alimenta la salvezza dalla morte per i suoi adepti. Se togliamo il sacrificio, dice, se togliamo il sangue, è la religione che muore. 
Poi tace. E noi tacciamo. 
E l’attimo dopo la pecora crolla a terra, e ha un lamento piccino, il sangue che fugge denso dalla giugulare morsa e lacerata dal Cresto. 
***
Mi siedo accanto a Joshoua, soli nel tramonto del giorno di Pasqua. 
La pietra che lo accoglie non ha spazio per me, ma io preferisco l’erba, mi ricorda l’umidità in cui mi hanno sepolto, così, senza nemmeno un rito, perché sono un suicida. 
Sotto di noi sentiamo ancora il canto delle persone. 
Sono allegre, hanno bevuto, ballato, mangiato tanta carne di agnello. Oggi ce n’era per tutti, soprattutto per chi non arriva a fine mese, e per i bambini, e per gli anziani. 
La gente ha trovato la speranza, si è radunata nelle piazze e poi nelle chiese e qui ha pregato.
Joshua sorride, persino le bolle sembrano quiete tra le pieghe della sua pelle.
Sai come andavano le cose agli inizi dei tempi, Giuda di Kariot?
Mi sposto verso lui, vicino vicino. Ha sempre un odore bambino, che a volte verrebbe voglia di mangiarselo tutto.
I re erano identificati con il sole e le regine con la luna e quando avveniva un’eclisse, agli inizi dei tempi, per queste divinità umane erano guai seri. Sì, perché per perpetuare il potere, per mostrare ai mortali che erano davvero sole e luna, anche loro dovevano morire in un sacrificio per poi permettere ai discendenti la rinascita.
La banda del paese esplode una marcia allegra, e tutte le note sono potenti, volano fino a noi, e mi prende una voglia bella di cantare e di ballare. 
Era un bel casino, Joshua, dico.
Certo che sì; Joshua non fa caso alla musica, non un fremito nei muscoli, nemmeno una bolla a sbirciare dal costato; Per questo abbiamo inventato i riti di sangue. Dovevamo trovare le vittime sacrificali che al tempo stesso perpetuassero il nostro potere e morissero al nostro posto. Senza morte, senza sacrificio, muoiono gli dei. 
Faccio di sì con la testa, la leggenda che si porta dentro nei secoli adesso mi sembra un grande fregatura. 
Cavolo, Joshua, di questi tempi rischi di brutto, insomma, con tutti gli animalisti in giro e gli agnelli liberi dal macello. 
Sì, pensa se dovessero smettere di mangiare carne di pecora a Pasqua. Lo sai, il mio secondo nome è Agnello di Dio.
Ci penso a lungo e me ne sto immobile, proprio come Joshua, e non mi interessa più l’invito della musica.
Rimango al suo fianco e so che non dovrò mai lasciarlo. Quest’uomo è merce preziosa, è carne vera; quella degli agnelli è solo un simbolo, un surrogato, la supplenza del pasto principale.
Ecco perché gli animalisti mi hanno chiesto di seguirlo e di segnalare ogni suo movimento fino alla prossima Pasqua. 
Alzo quello che rimane dei miei occhi nei suoi, che sono belli e che sono integri, e assaporo ancora il suo odore di carne pulita.
Mi pagheranno, così hanno detto, non tanto, ma a me va bene. 
Trenta euro al mese bastano per un piatto di agnello e un bicchiere di vino. 


[nota: altre anteprime del romanzo al link del blog Neurotopia http://sicuranza.blogspot.it/search/label/Carne%20di%20Agnello]

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